Intervista a cura di Silvia Antonelli
Quali forme assunse in Italia, a partire dal 1943, la persecuzione antiebraica? Chi vi partecipò e a quali livelli? Come si organizzò e attraverso quali strutture si realizzò la macchina persecutoria?
A queste domande risponde la ricerca dello storico Simon Levis Sullam uscita lo scorso anno con il titolo Carnefici italiani per Feltrinelli (da quest’anno presente anche in edizione economica).
L’autore, attraverso l’utilizzo di fonti e documenti, illumina un periodo della storia ancora poco indagato, quello della partecipazione italiana allo sterminio degli ebrei.
A partire dall’autunno 1943, la Repubblica di Salò pose tra i suoi pilastri ideologici l’antisemitismo. Supportata dalla stampa, fascista e non, e da ambienti della cultura alta che gonfiarono pregiudizi e stereotipi, la RSI (Repubblica Sociale Italiana) riuscì a realizzare una macchina organizzativa strutturata su più livelli al servizio dei piani di sterminio.
Molte furono le figure e gli ambiti coinvolti: dai funzionari di polizia che emanarono gli ordini di cattura, ai singoli agenti che realizzarono gli arresti, passando per un articolato dedalo burocratico all’interno del quale venivano stilate liste di ebrei da prelevare e da spedire ai lager, oltre che dei beni da confiscare.
Fino ad arrivare ai privati cittadini che spesso denunciarono vicini e conoscenti, a volte per ritorsioni private altre per una manciata di denari. Tutte, in ogni caso, furono rotelle indispensabili di un ingranaggio ben oliato ma incapace di funzionare senza la loro complicità.
Carnefici italiani è un’indagine storica in grado di scandagliare vicende ancora oggi poco chiare, sepolte dal peso autoassolutorio del mito, ormai sfatato, di “italiani brava gente”.
La mancata elaborazione storica e culturale del ventennio fascista e della successiva Repubblica di Salò rischia di svuotare di significato la Giornata della Memoria riducendola ad un momento di autoassoluzione. Possiamo dire che all’interno di questa criticità si colloca “Carnefici italiani”?
L’istituzione del Giorno della Memoria ha creato ormai da un quindicennio un momento dedicato al ricordo della Shoah e alla persecuzione delle vittime dei fascismi. Questo ha avuto da una parte degli effetti virtuosi, ma ha anche presentato alcuni elementi di ritualizzazione che svuotano di significato l’evento e le manifestazioni collegate.
C’è però un difetto d’origine da ricondursi alla legge istitutiva del Giorno della Memoria che non parla né reca in alcun punto la parola fascismo. Il 27 gennaio è diventata una data importante del calendario civile italiano che ha anche sopravanzato altre date come il 25 aprile e il 2 giugno; è un momento di riflessione sul passato, ma non si capisce esattamente che cosa l’Italia dovrebbe ricordare se non è in grado di raccontare la propria storia e il proprio coinvolgimento non solo in quanto vittime delle vicende della Seconda guerra mondiale ma anche in qualità di carnefici. Quella legge sottolinea il ruolo di coloro che salvarono ebrei e antifascisti, ma non cita mai come soggetto attivo i persecutori italiani e il fascismo che, nel 1938, ha iniziato a perseguitare gli ebrei e poi, nel 1943-45, ha partecipato alle deportazioni e quindi alla realizzazione della soluzione finale.
Già questa data ci pone delle domande su che cosa significa ricordare, cosa dobbiamo ricordare, quali soggetti, in che modo l’Italia ha ricordato fino ad oggi, come continua a farlo oppure come continua a preservare delle zone di oblio rispetto al proprio passato.
Per mettere in luce i vari livelli di responsabilità degli italiani all’interno della macchina organizzativa della persecuzione, a partire dal 1943 fino al 1945, lei utilizza la categoria di “genocidio”. In che modo le è funzionale a questa analisi?
La categoria di genocidio nasce nell’ambito del pensiero giuridico. Il termine venne coniato dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944 in riferimento, inizialmente, al genocidio degli armeni. La categoria venne quindi utilizzata per indicare ciò che stava accadendo agli ebrei in Europa.
È una teoria che è nata con la Shoah per definirla e che permette agli storici di poter comparare tra loro forme analoghe di violenza; da un lato, quindi, va posto l’accento sulla singolarità di Auschwitz, dall’altro è utile confrontare Auschwitz con altri avvenimenti simili e non collocarlo al di fuori della storia, etichettandolo come male assoluto, irripetibile.
Questo perché alcuni fenomeni sono ripetibili, anche se non identici a se stessi. Anche da un punto di vista civile è utile far suonare un campanello d’allarme dicendo che determinate condizioni storiche, sociali, economiche possono innescare il tentativo violento di sterminare in parte o in tutto un gruppo definito su basi razziali, etniche o religiose. Questo è avvenuto nella Shoah, così come è avvenuto nei decenni successivi ad esempio in Cambogia, Ruanda, Bosnia.
Da un punto di vista storico la categoria del “genocidio”consente di configurare il coinvolgimento degli italiani fra gli anni 1943-45. L’insieme di operazioni e azioni ai danni del gruppo ebraico, come gli arresti compiuti dagli italiani su base razziale, la depredazione dei beni, la detenzione nei campi di concentramento italiani, la consegna dei detenuti ai tedeschi che deportavano in Europa orientale verso i campi di sterminio si configura già come un genocidio anche se l’atto finale della Seconda guerra mondiale non si compie su territorio italiano per mano italiana.
Questa fase, specie se comparata con quello che gli italiani avevano fatto nelle colonie o, durante il conflitto mondiale, nei Balcani, dove avevano istituito dei campi di detenzione in cui la mortalità era stata molto elevata, dimostra che anche se gli ebrei fossero stati tenuti nei campi italiani senza consegnarli ai tedeschi, probabilmente le conseguenze sarebbero state di tipo genocida, considerata l’alta mortalità causata soprattutto dalle condizioni sanitarie.
Questo percorso configura, a mio avviso, un tentativo di genocidio paragonabile ad altri nella storia e consente di mettere meglio a fuoco le responsabilità italiane. Caratteristico dei genocidi è il fenomeno dei “carnefici della porta accanto”, basti pensare a quegli italiani che nel 1943-45 si svegliano una mattina e dopo essersi vestiti e fatti la barba vanno a dare la caccia ai propri vicini ebrei.
Mi sono servito delle riflessioni nate attorno alla categoria di genocidio per mettere meglio in luce la dinamica degli eventi in Italia, dei ruoli e delle responsabilità, di quei meccanismi molecolari che a livello delle società si scatenano e consentono ai genocidi di compiersi.
Il contesto nel quale si innescano queste dinamiche è quello peculiare della guerra civile che spezza il paese a partire dal 1943. Momento fertile per lo scatenarsi di atteggiamenti fratricidi come quello della delazione.
Ho cercato di compiere questo doppio gesto: inserire la Shoah italiana all’interno di un progetto genocida e, meglio di quanto non fosse stato fatto in precedenza, collocarla all’interno della guerra civile italiana, di quello scontro che divise il paese tra fascisti e antifascisti, dilaniò con una guerra fratricida la società italiana, creò una situazione di caccia al nemico interno, moltiplicò episodi di sospetto, paranoia, di violenza diffusa che favorirono il realizzarsi della Shoah.
I carnefici italiani non sono stati solo dei feroci antisemiti; c’erano senza dubbio italiani ideologicamente motivati, ma c’erano anche quelli che hanno voluto approfittare delle circostanze per impossessarsi dei beni degli ebrei che sarebbero stati deportati. Ci furono coloro che agirono per sospetto nei confronti dei vicini, per ritorsione o perché si trovavano all’interno di strutture burocratiche e amministrative che li hanno portati a obbedire agli ordini.
Servendomi dell’analisi di Zygmunt Bauman , filosofo e storico, su modernità e olocausto e ancor prima del lavoro di Raul Hilberg, storico della Shoah, ho cercato di mostrare come anche in Italia questa moltiplicazione delle funzioni ha consentito alla macchina dello sterminio di funzionare. Hanno anche in parte deresponsabilizzato i soggetti perché le funzioni singole non erano, nella maggior parte dei casi, di per sé atti mortali. Si trattava in molti casi di stendere una lista in un ufficio, battere a macchina un ordine di arresto, guidare un camion, condurre un treno. Queste persone erano a conoscenza del destino ultimo delle vittime? Di certo erano consapevoli di star partecipando a un progetto persecutorio. È chiaro che si tratta di diversi livelli di responsabilità.
Alcuni capitoli del libro sono dedicati ai casi locali di persecuzione: il 5 dicembre 1943 il questore di Venezia ordinò “l’immediato fermo di elementi appartenenti alla razza ebraica”. L’azione coinvolse forze di polizia, militari e il braccio armato del partito. Quella di Venezia fu una delle più numerose retate condotte in quell’anno. Gli ebrei fermati, donne, uomini e bambini vennero trasportati nel campo di Fossoli, in provincia di Modena, e da qui fatti salire su un convoglio diretto in Polonia. Nel riportare lo svolgimento delle azioni di cattura lei si chiede: “Che cosa sarà successo quella sera nelle case dei poliziotti, dei carabinieri e dei fascisti prima degli arresti?”.
Come si risponde, da storici, a queste domande?
Anzitutto lo storico può formulare queste domande e immaginare delle risposte; poi l’immaginazione dello storico deve servirsi di documenti.
Noi non conosciamo l’esistenza di diari o di corrispondenza tra carnefici, non ci furono questurini italiani che registrarono i loro atti. Abbiamo casomai testimonianze e lettere di vittime, ce n’è una per Venezia che io ho citato lungamente perché documenta quasi in presa diretta l’intervento della questura.
Nonostante spesso si identifichi il biennio 1943-45 come una parentesi nera, quasi avulsa dal contesto a monte, è utile ricordare che il razzismo fu fondamento dell’ideologia fascista. Credo che la propaganda messa in campo dal regime anche a partire dal 1938, assieme alla stampa antiebraica che collaborò alla diffusione di stereotipi e pregiudizi, sortirono notevoli effetti sulla popolazione. Se è vero che non per tutti il propulsore della persecuzione fu l’antisemitismo, la pedagogia razzista ebbe in ogni caso le sue conseguenze.
Certamente è vero a partire dal 1938, quindi fu vero per almeno cinque anni prima del 1943 per quanto riguarda la pedagogia, la macchina della propaganda e l’ideologia del fascismo che dal 1938 decise di diventare esplicitamente razzista, anzi ancora prima, dagli anni 1936 e 1937.
Oggi viene data molta importanza anche alla svolta colonialista che pose la creazione in termini politici di una coscienza razziale e portò all’introduzione delle prime leggi contro le commistioni razziali nelle colonie. La costruzione di una pedagogia razzista, sia dal punto di vista del pensiero scientifico dell’epoca che del pensiero politico, aveva tracce consistenti anche prima. Che l’ideologia fascista fosse un’ideologia di odio, di sopraffazione, che pose al centro la guerra, il disprezzo dell’altro, è evidente fin dagli anni Venti.
È utile in ogni caso fare delle comparazioni e sottolineare alcune differenze: il fascismo non ebbe, all’interno del proprio apparato ideologico, come elemento fondante l’antisemitismo; ci furono frange antisemite del fascismo già negli anni Trenta e anche l’alta cultura e la stampa, sia cattolica che laica, pubblicavano testi antisemiti. C’è un discorso generale da fare rispetto alla cultura italiana e alla presenza in essa di pregiudizi antiebraici che si ritrovano in buona parte della cultura europea per cui l’ebreo, per secoli, è stato individuato come lo straniero interno, il nemico. Alla base di questo antisemitismo c’è una forte radice religiosa: l’antigiudaismo radicato in Europa e in particolare nell’Italia cattolica. Si pensi che il cattolicesimo inizierà a rigettare l’antigiudaismo solo a partire dal Concilio Vaticano II, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. Non basta la Shoah per far cambiare posizione alla chiesa.
Oggi la società italiana, secondo me, ha problemi che non riguardano tanto l’antisemitismo quanto piuttosto un razzismo diffuso verso il migrante, l’altro, una strisciante e a volte apertamente espressa islamofobia, queste sono le cose più urgenti. Il Giorno della Memoria dovrebbe servire per questo, per affrontare tali questioni urgenti. Purtroppo ci sono molti amministratori di destra, anche nel Nordest in cui viviamo, che celebrano con piacere la Giornata della Memoria e poi invocano la cacciata dei migranti, senza vedere che dovrebbe esistere un collegamento, una consequenzialità tra l’impegno a ricordare e l’impegno sul futuro.
Buona parte dei carnefici italiani rimase impunita. Lei parla di 13000 condannati alla fine della Seconda Guerra Mondiale e di 10000 amnistiati. Su questa impunità si fonda l’Italia del dopoguerra. Quali le conseguenze a livello sociale e culturale per il nostro paese?
Quello fu un mancato passaggio giudiziario, nel senso che non solo si celebrarono pochi processi ai danni dei fascisti, ma in particolare la persecuzione antiebraica non configurò mai un reato specifico, né venne considerata un’aggravante. Questo fatto va inserito in un contesto di processi internazionali, perché anche a Norimberga non si parlò di crimini contro il popolo ebraico, in quanto quella specificità verrà definita nell’ambito dello stato di Israele negli anni cinquanta e utilizzata la prima volta sotto i riflettori ai tempi del processo Eichmann nel 1961.
In secondo luogo vi è un problema più generale di continuità dello stato e degli apparati come la magistratura, la diplomazia, la polizia. Tutte quelle persone che furono attive e si formarono nello stato fascista, una parte delle quali confluita nella Repubblica di Salò, non venne estromessa dallo stato italiano una volta terminata la guerra. I poliziotti, come ad esempio i giudici, continuarono ad essere gli stessi. Ci furono poi dei casi clamorosi come quello del presidente del Tribunale per la razza, Gaetano Azzariti
Gaetano Azzariti fu presidente del Tribunale della razza dal 1938 al 1943, ministro di Grazia e Giustizia di Badoglio, capo dell’ufficio legislativo di Togliatti presso il medesimo ministero e infine presidente della Corte Costituzionale negli anni cinquanta., che diventa nei primi anni Cinquanta, presidente della Corte Costituzionale.
Questo vale anche per l’alta cultura e per le scienze: una parte consistente degli scienziati che firmarono nel 1938 il Manifesto degli scienziati razzisti continuò ad esercitare nel dopoguerra, a rimanere nelle università e alcuni di essi ricevettero addirittura delle onorificenze dal Presidente della repubblica. Tutto avvenne come se niente fosse accaduto e questo ha portato la società italiana in larga parte ad autoassolversi.
Ha avuto delle difficoltà nel condurre questa ricerca?
Essendo passati settant’anni da quegli eventi ormai non dovrebbero esserci, e generalmente non ci sono, dei vincoli sui documenti pubblici; la legge della privacy prescrive che devono trascorrere settant’anni dagli eventi per poter accedere ai documenti e quindi in generale, nelle ricerche riguardanti il caso specifico di Venezia, ho avuto accesso alla documentazione dell’Archivio di stato. Ci sono però alcuni soggetti coinvolti, ad esempio i carabinieri, che su questo tema non hanno mai aperto il loro archivio storico, nonostante il ruolo importante svolto negli anni della repubblica sociale. Ci sono inoltre alcune questure che ancora non hanno versato i documenti riguardanti il proprio operato nella Repubblica sociale; mentre cercavo dei fascicoli su alcuni funzionari presso la questura di Venezia, mi sono reso conto che questi documenti erano spariti. Io non avevo e non ho finalità di tipo giudiziario, a me interessa poter studiare quegli eventi, ricostruire i meccanismi di funzionamento e le catene di responsabilità, non stabilire delle responsabilità giudiziarie.
Rispetto a questo tema quali sono i terreni di indagine oggi ancora aperti?
Una ricerca complessiva sul ruolo degli italiani nella Shoah deve ancora essere fatta. Noi abbiamo i numeri. Sulla scia di ricerche mie e di altri, fatte su alcune realtà locali importanti come Roma e la Toscana, ho potuto fare delle osservazioni su alcuni aspetti specifici, ma non disponiamo ancora di una storia complessiva delle deportazioni. Sarebbe utile ricostruire la storia, città per città, di quello che è successo tra il 1943-45 nel sistema di complicità attorno a coloro che compirono gli arresti o che tradirono gli ebrei. In diverse aree di questo complesso universo che è il 1943-45 in Italia c’è ancora molto da lavorare e da scoprire, vicende singole da raccontare.
Come declinare la Giornata della Memoria nel presente, come farlo diventare uno strumento utile di lettura dell’attualità?
E’ molto difficile rendere la Giornata della Memoria attuale ogni anno, il solo fatto di ricordare in un solo giorno specifico allo scopo di mettersi a posto la coscienza è già un difetto anche se non si può vivere ricordando ed è giusto mantenere un corretto equilibrio tra memoria e oblio. Credo che non abbia senso ricordare Auschwitz se non si rifiuta il razzismo, l’intolleranza, se non si sviluppa il concetto di accoglienza degli altri da sé, dei migranti. Non ha senso parlare di quello che è stato senza chiedersi quello che vogliamo essere. Le domande della storia riguardano sempre il presente e il futuro, anche se si applicano al passato, ancora di più quando ci si occupa di eventi violenti di questa natura. Non ha senso ricordare il Giorno della Memoria e poi chiudere le frontiere e invocare il respingimento degli altri oppure lasciarsi andare a battute stereotipe su migranti, musulmani, sui diversi. Ogni età ha i suoi diversi, ogni età è a rischio di innescare nuovamente quei meccanismi di odio e intolleranza. Come far funzionare questo al di là dei messaggi è una domanda piuttosto complicata, però possiamo parlarne, chi lavora con i giovani, con gli studenti sa che è molto difficile far capire che quel messaggio riguarda tutti, che la Shoah ha colpito alcuni gruppi specifici, in particolare gli ebrei, ma riguarda chiunque. Bisogna in primo luogo cercare di dare un’interpretazione universalistica e poi trovare le giuste narrazioni, i modi di comunicare quegli eventi. Questo si può fare con una buona dose di memoria e di storia, ma credo che rispetto alla trasmissione del messaggio, i percorsi narrativi e tutte le forme espressive siano molto importanti e vadano incentivate, spiegate, incoraggiate.
Simon Levis Sullam insegna storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Tra l’altro è tra i curatori della Storia della Shoah (Utet, 2006-2010).
Silvia Antonelli